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Nascosto dietro un imponente muraglione a nord di Napoli, si erge uno dei più antichi manicomi d’Italia, oggi abbandonato, ma carico di storia e suggestione. La sua presenza evoca antichi fantasmi nella mente della gente che passa per quelle strade, poiché si tratta di uno degli ospedali psichiatrici più antichi ed estesi del Paese.

La sua storia inizia nel 1865, quando la legge provinciale sancisce l’obbligo per le province di provvedere al mantenimento dei “mentecatti poveri“. Dopo dispute e sovraffollamenti, diverse province, inclusa Napoli, decidono di creare i propri ospedali psichiatrici. L’ospizio iniziale, la Madonna dell’Arco di S. Anastasia, si rivela inadatto, ma l’idea di un manicomio più grande e moderno si concretizza nel 1909 con la costruzione della struttura attuale, completata nel 1910.

Il modello terapeutico riflette le concezioni dell’epoca: il lavoro e le attività ricreative sono centrali per il reinserimento sociale dei pazienti. L’ospedale diventa un universo autonomo con biblioteca, tipografia, laboratori e persino una colonia agricola. Tuttavia, l’aumento delle richieste mette sotto pressione la struttura, portandola in crisi negli anni ’30.

La Seconda Guerra Mondiale porta ulteriori sfide: carenza di personale, di generi alimentari e di medicinali. L’ospedale subisce danni durante i bombardamenti e viene occupato dalle truppe alleate fino al 1946.

Negli anni ’50, l’ospedale subisce l’ultimo ampliamento. Tuttavia, con la legge Basaglia del 1978, l’approccio alla salute mentale cambia radicalmente, portando all’abbandono progressivo della struttura.

Oggi, il manicomio, situato su un’area di 220.000 metri quadri, giace abbandonato e invaso dalla natura. Esplorarlo è un viaggio nel passato, attraverso corridoi lunghi e desolati, stanze decadenti e una sensazione di “non luogo”. La struttura, ancora intatta e non vandalizzata come molti edifici abbandonati, è diventata rifugio per alcuni senzatetto.

Camminando con attenzione in quei luoghi ci si imbatte nei posti frequentati dalle persone per la riabilitazione lavorativa, in particolare nelle lavanderie, nella tipografia, nelle cucine, dove ancora oggi è possibile vedere i macchinari che venivano utilizzati.

E salendo le scale che portavano ai reparti si possono vedere file di porte aperte con gli spioncini che servivano per sorvegliare il riposo delle persone. E nei corridoi e nelle stanze spesso ci si imbatte nelle scritte, nelle testimonianze lasciate dagli abitanti e si coglie il loro anelito di libertà.

Poi, se si ha la fortuna di capitare in momenti giusti, quando il sole entra dalle finestre chiuse da serrande malridotte, i suoi raggi diventano sciabolate luminose messe in evidenza dalla polvere del posto.
In questo “non luogo”, si avverte la preziosità del passato e la consapevolezza del privilegio di poterne esplorare i segreti. Una pagina vissuta della storia della salute mentale, cristallizzata in un’atmosfera che sembra fermarsi nel tempo, anche se la sua presenza oggi si svela più come una testimonianza silente di un’epoca ormai trascorsa.


 


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